Addurre la pretesa ragione contro l’altrui torto non costituisce giustificato motivo per non aderire alla mediazione ma, una vera e propria miopia che ha comportato per Roma Capitale una pesante sanzione per responsabilità aggravata sanzionata ex art. 96 co III ° cui può seguire , trattandosi di Ente Pubblico, anche un danno erariale.
Con sentenza del 17 dicembre 2015 il Tribunale di Roma– Giudice dott..Massimo Moriconi condanna Roma Capitale in persona del Sindaco pro tempore:
- al risarcimento dei danni che determina in favore di R. C. nella complessiva somma di € 9.100.000 oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo;
- al pagamento delle spese di causa che liquida in favore dell’attore in complessivi € 500,00 per compensi oltre IVA, CAP e spese generali;
- al pagamento ai sensi dell’art.96 co.III° c.p.c. in favore di R. C. della somma di € 8.000,00 ;
- al pagamento in favore dell’Erario di una somma corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio, mandando alla cancelleria per la riscossione;
ed inoltre:
DISPONE con separata ordinanza, l’invio degli atti e della sentenza alla Procura Generale della Corte dei Conti per la valutazione dei danni erariali;
Sentenza integrale
TRIBUNALE di ROMA SEZIONE Sez.XIII°
RG._____-11
n._____/15 del 17.12.2015
REPUBBLICA ITALIANAIl Giudice dott. cons. Massimo Moriconi
1) I fatti rilevanti
2) L’ordinanza del 15.12.2014 e l’invio in mediazione demandata;
3) La (in)sussistenza di un giustificato motivo per non aderire, non presentandosi, all’incontro di mediazione, da parte dell’ente convenuto;
4) Le conseguenze previste dall’art.8 del decr.lgsl.28/10 per la mancata partecipazione dell’ente ritualmente convocato al procedimento di mediazione attivato dall’attore su disposizione del giudice ex art.5 co.II° comma;
5) Le conseguenze, sul merito della causa, della mancata comparizione del Comune di Roma , senza giustificato motivo, l’art.116 cpc;
6) Le risultanze probatorie ed il risarcimento dei danni;
7) Le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla mancata ingiustificata partecipazione al procedimento di mediazione previste dal decr.lgsl.28/2010 – La sanzione del pagamento a favore dell’erario di una somma pari al contributo unificato.
8) Le conseguenze ulteriori per la inottemperanza alla disposizione del giudice ex art.5 co.II° – La responsabilità aggravata di cui all’art.96 III° comma cpc Presupposti e ragioni della sua applicabilità alla mediazione – A) L’art.8 comma quarto bis del decr.lgsl.28/10 non esaurisce gli strumenti sanzionatori posti a presidio dell’effettivo svolgimento della mediazione – B) Le condotte dei soggetti coinvolti nel procedimento di mediazione sono sussumibili nell’area di interesse dell’art.96 cpc – C) L’art.96 cpc in combinato disposto con l’art. 3 Cost. in funzione riequilibratrice del sistema sanzionatorio apprestato per l’effettivo svolgimento della mediazione;
8 bis) Il contenuto dell’art. 96 III° – Il dolo o la colpa grave – L‘inottemperanza, ingiustificata, delle parti all’ordine del giudice ex art. 5 comma II° decr.lgsl.28/10, di attivare e di partecipare alla mediazione, costituisce grave inadempienza, dalla quale può discendere l’applicazione della sanzione di cui al terzo comma dell’art.96 cpc.
9) La quantificazione della somma al cui pagamento la convenuta va condannata ai sensi dell’art.96 co.III° cpc
10) Il danno erariale – Trasmissione degli atti alla Procura Generale della Corte dei Conti
11) Le spese processuali.
letti gli atti e le istanze delle parti,
osserva:
1 – I fatti rilevanti
L’incidente è accaduto in data 3.7.2010
Secondo quanto riferito dall’attore, R. C. a causa delle buche presenti sul manto stradale, quel giorno alle ore 23 circa, in Piazza Augusto Righi di Roma, mentre si trovava alla guida del motociclo di sua proprietà Honda 600 tg._____, all’altezza del distributore di benzina Agip, e del rivenditore di auto Ford, perdeva il controllo della moto e cadeva a terra riportando lesione alla persona e danni alla moto
Interveniva in un secondo tempo la Polizia Municipale che redigeva rapporto ed effettuava un sopralluogo in data 13.7.2010 riscontrando in loco n.5 buche di varie dimensioni che, su sollecitazione della stessa PM, venivano riempite, dalla ditta preposta, con l’applicazione di asfalto a freddo.
L’attrice produceva fatture di ogni spesa medica sostenuta per la cura delle lesioni.
Chiedeva la somma di €.25.290 a titolo di risarcimento dei danni alla persona e di €.700 per quelli alla moto.
Il Comune di Roma si costituiva e contestava sia nell’an che nel quantum le domande avverse, rilevando in particolare che la P.M. non era intervenuta nell’immediato, che le buche era molte e di vaste dimensioni e quindi visibili e che la zona era illuminata.
Veniva sentito un testimone (un conoscente con il quale l’attore aveva appuntamento in loco, per andare insieme ad una festa, e che ivi lo attendeva) che confermava le prospettazioni dell’attore. In particolare ricordando l’assenza di illuminazione pubblica e precisando che la strada era costellata di buche.
In sede di interrogatorio formale l’attore precisava che i lampioni erano spenti essendovi solo le luci del benzinaio e del concessionario, che le buche erano numerose e grandi e che non conosceva quella strada essendo la prima volta che la percorreva.
Il giudice disponeva la mediazione demandata, per il caso che sulla proposta, che contestualmente formulava ex art.185 bis, le parti non fossero in grado, da sole, di raggiungere un accordo.
-2- L’ordinanza del 15.12.2014 e l’invio in mediazione demandata
Con l’ordinanza del 15.12.2014 il giudice proponeva:
il pagamento a favore di R. C. della complessiva somma di €.6.000,00 a carico di Roma Capitale. Oltre al pagamento, a carico della stessa parte, di un contributo alle spese di causa a favore dell’attore per l’importo di €.1.300,00 oltre IVA CAP e spese generali; nonché spese di consulenza tecnica di ufficio
In particolare, e fra l’altro, l’ordinanza così motivava sulla proposta:
..in definitiva l’alternativa all’accordo è che l’esito del giudizio possa, per ciascuna delle parti, essere diverso e peggiore di quello ambìto (e per quanto si dirà anche della proposta che segue), circostanza questa niente affatto anomala ma insita nella natura stessa della giurisdizione.
Al contrario, allo stato odierno degli atti, con la proposta del giudice, le parti possono predeterminare i risultati del percorso, valutarne da subito la convenienza e beneficiarne degli effetti.
Nell’ipotesi che taluna delle parti non sia disponibile ad aderire all’accordo, ne dovrà essere esposto a verbale il motivo in modo specifico, in modo da consentire al giudice di regolare, con la sentenza, le posizioni delle parti secondo giustizia (che in questo caso potrebbe equivalere a sanzionare la irragionevolezza del rifiuto ed il pregiudizievole disinteresse alla trattativa traendone le debite conclusioni a mente dell’art.91 e co.III° dell’art.96 cpc e nonché delle altre norme in materia di A.D.R. così come previste dalla legge e sviluppate dalla giurisprudenza, massime di questo giudice).
Con la stessa ordinanza il giudice disponeva un percorso di mediazione demandata ai sensi del comma secondo dell’art.5 decr.lgs.28/2010 come modificato dal d.l.69/2013, che veniva regolarmente avviato dall’attore.
Nella suddetta ordinanza, il giudice aveva inoltre così motivato:
Vanno, ancora, avvertite le parti che:
a) trattandosi di soggetto pubblico (ente locale territoriale), si ricorda che, laddove ciò dovesse essere utile per pervenire ad un accordo conciliativo, non vi sono ostacoli a che il funzionario delegato possa gestire la procedura e, nell’ambito dei poteri attribuitigli, concludere un accordo. Ricorrendone i presupposti, anche osservando le indicazioni contenute nelle linee guida in materia di mediazione nelle controversie civili e commerciali per l’attuazione dei procedimenti di mediazione di cui al decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, recante “Attuazione dell’art. 60 della Legge 18 giugno 2009, n.69 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali” circolare DFP 33633 10/08/2012 9/2012 per le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001. Vale altresì sottolineare che l’eventuale deprecata scelta di una condotta agnostica, immotivatamente anodina e deresponsabilizzata dell’amministrazione pubblica (massime non presentandosi in mediazione senza ragione alcuna) potrebbe esporla a responsabilità per danno erariale sotto il profilo delle conseguenze del mancato accordo su una proposta del giudice o mediatoria comparativamente valutata rispetto al contenuto della sentenza. Conseguenze che, in relazione alle circostanze del caso concreto, sarebbe doveroso segnalare agli organi competenti;
b) la proposta del giudice che segue è permeata da un contenuto di equità e che oltre a ciò l’esito dell’ulteriore corso della causa, laddove mancasse l’accordo, non consente a ciascuna delle parti di considerare definitivamente stabilizzati, nel bene e nel male, i suoi contenuti;
c) ai sensi e per l’effetto del secondo comma dell’art.5 decr.lgsl.28/’10 come modificato dal D.L.69/’13 è richiesta alle parti l’effettiva partecipazione al procedimento di mediazione demandata e che la mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione demandata dal giudice oltre a poter attingere, secondo taluna interpretazione giurisprudenziale, alla stessa procedibilità della domanda, è in ogni caso comportamento valutabile nel merito della causa.
Nessun soggetto si è presentato per il Comune di Roma, benché ritualmente convocato dall’attore, nel procedimento di mediazione, che si è per tale ragione concluso, con la sola presenza dell’attore, come attesta il relativo verbale del 8.7.2015, senza potersi entrare nel merito delle diverse posizioni delle parti.
-3- La (in)sussistenza di un giustificato motivo per non aderire, non presentandosi, all’incontro di mediazione da parte dell’ente convenuto.
Con mail del 8.7.2015 il difensore di Roma Capitale inviava all’organismo di mediazione il seguente messaggio:
..invio la presente in nome e per conto di Roma Capitale per comunicare il diniego da parte della mia assistita ad aderire alla procedura di mediazione.
Quanto sopra al fine di evitare ulteriori spese a carico dell’Amministrazione anzidetta e comunque tenuto conto delle risultanze istruttorie che certamente evidenziano la assoluta assenza di responsabilità in capo a Roma Capitale
Devesi affermare l’assoluta insussistenza di un giustificato motivo per la non partecipazione al procedimento di mediazione, e la inconsistenza delle suddette giustificazioni, per le seguenti ragioni:
I° In una realtà amministrativa e burocratica di grandi dimensioni qual’ è il Comune di Roma il riferimento a: ..in nome e per conto di Roma Capitale” che si legge nella missiva testimonia che non è stata data alcuna importanza all’invio in mediazione. E che per contro è stata platealmente violata l’avvertimento del giudice di cui alla lettera a) che precede. Ed infatti poiché la procura è stata rilasciata direttamente dal Sindaco pro tempore e non da un responsabile del procedimento o procuratore speciale, è sommamente inverosimile che il Sindaco di Roma, o chiunque altro per esso, sia stato mai e realmente investito della conoscenza dell’ordinanza e dell’invio in mediazione impartito dal giudice ed abbia assunto una qualsiasi determinazione consapevole al riguardo. La risposta quindi, pur riconducibile formalmente al soggetto convenuto, è meramente stereotipa e di stile, sintomo della trattazione dell’ordine giudiziale, da parte dell’ente territoriale, come mera questione processuale di cui si deve occupare l’avvocato al quale è stato rilasciato il mandato alla lite.
II° E’ viziato da manifesta miopia logico-giuridica il tentativo di giustificare il rifiuto alla partecipazione alla mediazione, affermando e ribadendo, come fa l’ente territoriale, la propria ragione e l’altrui torto, e ciò in quanto che
a) addurre la pretesa ragione contro l’altrui torto per non aderire alla mediazione è una vera e propria aporia: se questa fosse infatti una valida ragione per non partecipare al procedimento di mediazione, la mediazione non potrebbe esistere tout court, posto che alla base della sua ragione d’essere vi è, immancabilmente, una divergenza di vedute fra le parti in conflitto, e precisamente su dove sia allogata la ragione e dove il torto;
b) il nuovo testo dell’art.8 del decr.lgsl.28/10 prevede che al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato. Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. La norma è stata, condivisibilmente, interpretata dalla giurisprudenza nel senso che solo in presenza di ragioni formali dirimenti (più precisamente di questioni pregiudiziali che ne impediscano la procedibilità) sia ammissibile fermarsi alla fase introduttiva del primo incontro senza procedere oltre. In questo contesto, è ben arduo ravvisare un caso in cui possa sussistere un giustificato motivo che autorizzi l’assenza tout court davanti al mediatore della parte convocata;
c) le modestissime spese che la mediazione implica, sono ben ripagate dai numerosi vantaggi di un possibile accordo (cfr.anche gli artt.17 e 20 decr.lgsl.28/10 sui benefici tributari e fiscali);
d) secondo le più recenti statistiche rese note dal Ministero della Giustizia afferenti al periodo 1° gennaio – 30 giugno 2015, il 47,0% dei procedimenti di mediazione si è concluso con un accordo quando l’aderente è comparso e ha proseguito oltre il 1° incontro.
III° Non può essere obliterato che a monte del provvedimento vi è la valutazione del giudice che ha esaminato gli atti, studiato le posizioni delle parti, ed infine adottato un provvedimento che, in relazione alle circostanze tutte indicate dal secondo comma dell’art.5 decr.lgsl.28/2010, testimonia il maturato convincimento del magistrato circa l’utilità di un percorso di mediazione nell’ambito del quale le parti avrebbero potuto approfondire e discutere liberamente le rispettive posizioni fino al raggiungimento di un accordo per entrambe vantaggioso.
In particolare in questa causa il giudice aveva offerto al Comune di Roma un formidabile asset per il raggiungimento di un buon accordo (cfr. punto 6 che segue)
Risulta pertanto comprovato che nel caso di specie non solo non sussiste un giustificato motivo per la mancata comparizione del Comune nel procedimento di mediazione; ma che tale rifiuto è del tutto irragionevole, illogico e contrario allo spirito ed alla lettera della legge.
-4- Le conseguenze previste dall’art.8 del decr.lgsl.28/10 per la mancata partecipazione del soggetto ritualmente convocato al procedimento di mediazione attivato dall’attore su disposizione del giudice ex art.5 co.II° comma
L’art.8 co.IV° bis prima parte del decr. lgsl. 28/2010 relativamente alla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione prevede che il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile.
La norma si applica a differenza della seconda parte dell’art. 8 co.IV° (relativa al contributo unificato) che riguarda solo le parti costituite, a tutte le parti.
-5- Le conseguenze, sul merito della causa, della mancata comparizione del Comune di Roma , senza giustificato motivo, l’art.116
La mancata partecipazione, senza una valida giustificazione, al procedimento di mediazione (obbligatoria o demandata), costituisce condotta di per sé grave perché idonea a determinare la introduzione ovvero, se già pendente, l’incrostazione ed il prolungamento di una controversia in un contesto giudiziario, quello italiano, già ampiamente saturo nei numeri e troppo dilatato nella durata.
Quanto alla possibilità di valorizzare, nel processo, come argomento di prova a sfavore di una parte, la mancata comparizione in mediazione, senza giustificato motivo, della parte convocata, si confrontano nella giurisprudenza due diverse opinioni.
Secondo una prima tesi la decisione del giudice non può essere fondata esclusivamente sull’art. 116 c.p.c., cioè su circostanze alle quali la legge non assegna il valore di piena prova, potendo tali circostanze valere in funzione integrativa e rafforzativa di altre acquisizioni probatorie.
Secondo altra opinione non vi è alcun divieto nella legge affinché il giudice possa fondare solo su tali circostanze la sua decisione, valendo come unico limite quello di una coerenza e logica motivazionale in relazione al caso concreto.
È espressione della prima teoria l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la norma dettata dall’art. 116 comma 2 c.p.c., nell’abilitare il giudice a desumere argomenti di prova dalle risposte date dalle parti nell’interrogatorio non formale, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni da esso ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo, non istituisce un nesso di conseguenzialità necessaria tra eventuali omissioni e soccombenza della parte ritenuta negligente, ma si limita a stabilire che dal comportamento della parte il giudice possa trarre ‘argomenti di prova’, e non basare in via esclusiva la decisione, che va comunque adottata e motivata tenendo conto di tutte le altre risultanze (fra le tante Cassazione civile, sez. trib., 17/01/2002, n. 443).
La norma in questione merita senz’altro una maggiore utilizzazione anche se a differenza di altri casi in cui da una determinata circostanza è consentito ritenere provato tout court il fatto a carico della parte che tale circostanza subisce, in questo caso la legge prevede che il giudice possa utilizzarla per trarre dalle circostanze valorizzate “argomenti di prova”.
La norma dell’art.116 c.p.c. viene richiamata dal legislatore della mediazione (art.8 decr. lgs. cit.) nell’ambito della ricerca ed elaborazione di una serie di incentivi e deterrenti volti a indurre le parti, con la previsione di vantaggi per chi partecipa alla mediazione e di svantaggi per chi al contrario la rifugge, a comparire in sede di mediazione al fine di pervenire a un accordo amichevole che prevenga o ponga fine alle liti.
Ciò sul presupposto che le statistiche ufficiali dimostrano sempre più alte percentuali di accordi in presenza della comparizione della parte convocata.
Ne consegue, tali essendo le finalità del richiamo dell’art.116 c.p.c nel decr. lgsl. 28/10, che equivarrebbe a tradire la ratio della norma, svalutarne la portata, considerandola una mera e quasi irrilevante appendice nel corredo dei mezzi probatori previsti dall’ ordinamento giuridico.
Va considerato che nell’attuale situazione, affetta da una endemica lunghezza nei tempi di risposta alla domanda di giustizia, causata principalmente dalla imponente mole di cause iscritte nei tribunali e delle corti; e viste le sempre più gravi e negative conseguenze sociali, economiche e di immagine anche internazionale del Paese, derivanti dal ritardo nella definizione dei processi, sia necessario rivalutare quanto previsto dall’art.116 cpc
È necessario tuttavia fissare delle regole precise al riguardo.
Deve essere ben chiaro in primo luogo che giammai la mancata comparizione in sede di mediazione potrà costituire argomento per corroborare o indebolire una tesi giuridica, che dovrà sempre essere risolta esclusivamente in punto di diritto.
A favore o contro la parte non comparsa in mediazione.
Ed infatti lo strumento offerto dall’art. 116 c.p.c. attiene ai mezzi che il giudice valuta, nell’ambito delle prove libere (vale a dire dove si esplica il principio del libero convincimento del giudice precluso in presenza di prova legale ) ai fini dell’accertamento del fatto.
L’argomento di prova appartiene all’ampio armamentario degli strumenti utilizzati dal giudice in un ambito in cui non opera la prova diretta, vale a dire quella dove si ha a disposizione un fatto dal quale si può fondare direttamente il convincimento.
Nel processo di inferenza dal fatto al convincimento l’argomento di prova ha la stessa potenzialità probatoria indiretta degli indizi.
E come le presunzioni semplici ha come stella polare il criterio della prudenza (art. 2729 c.c.) che deve illuminarne l’utilizzo da parte del giudice.
Va ricordata quella giurisprudenza della Suprema Corte che ha ritenuto che l’effetto previsto dall’art. 116 c.p.c. può – secondo le circostanze – anche costituire unica e sufficiente fonte di prova (Cassazione civile, sez. III, 16/07/2002, n. 10268, che così si esprime: Quanto a questa ultima norma –art. 116 c.p.c. n.d.r.- in particolare, essa attribuisce certo al giudice il potere di trarre argomento di prova dal comportamento processuale delle parti – e però, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ciò non significa solo che il comportamento processuale della parte può orientare la valutazione del risultato di altri procedimenti probatori, ma anche che esso può da solo somministrare la prova dei fatti, Cass. 6 luglio 1998 n. 6568; 1 aprile 1995 n. 3822; 5 gennaio 1995 n. 193; 14 settembre 1993 n. 9514; 13 luglio 1991 n. 7800; 25 giugno 1985 n. 3800).
Tuttavia il giudice opina che almeno di regola e secondo le circostanze sia preferibile ritenere che gli argomenti di prova che possono essere desunti dalla ingiustificata mancata comparizione della parte chiamata in mediazione abbiano lo scopo e l’utilità di integrare gli elementi di giudizio già presenti.
Alla luce di quanto precede, si ritiene che la evidente assenza di giustificati motivi per la mancata partecipazione dell’ente convenuto alla mediazione demandata dal giudice, in forza del combinato disposto degli artt. 8 co.IV° bis del decr. lgsl. 28/2010 e art. 116 c.p.c., concorra alla valutazione del materiale probatorio già acquisito, nel senso di ritenere raggiunta la prova – per quanto e nei limiti infra illustrati – della fondatezza degli argomenti dell’attore.
-6- Le risultanze probatorie ed il risarcimento dei danni
Già nell’ordinanza del 15.12.2014 il giudice aveva puntualizzato alcune fondamentali circostanze e valutazioni:
considerato che è stata espletata specifica istruttoria, ma al di là della prova orale non è intervenuta nessuna autorità pubblica, e le fotografie rammostrano un manto stradale ampiamente destrutturato con sfaldamenti di grandi dimensioni ed una situazione ben diversa da quella di una singola buca poco o per nulla visibile;
ritenuto altresì che la velocità urbana deve essere particolarmente moderata da parte dei conducenti di ciclomotori e motocicli in una città come quella di Roma notoriamente affetta da un endemico problema di dissesto del manto viario, e che il mantenimento di un condotta di guida prudente accorta e consapevole può ridurre o eliminare del tutto il pericolo di cadute ed incidenti causati da tale problema;
considerato che la diffusa e notoria presenza di buche e simili non dispensa né esonera da responsabilità l’ente proprietario;
considerato che la giurisprudenza della S.C. non esclude, condivisibilmente, la possibilità di concorso di colpa anche per quanto riguarda i danni derivanti da “insidia” stradale;
preso atto che la domanda è stata formulata solo sotto il profilo dell’art.2043 cc;
viste le tabelle per il risarcimento del danno biologico in uso presso il tribunale di Roma.
Lo stato della strada dove l’attore con la sua moto è caduto vittima delle buche, era, come ammette lo stesso ente territoriale (che ne deduce però e quanto meno, la visibilità) in uno stato pietoso (come attesta icasticamente la sottostante fotografia, che rammostra la superficie, post sinistro, a seguito della manutenzione con l’asfalto a freddo), una specie di barriera orizzontale che percorre ed attraversa tutta la strada, rendendo di fatto assai difficoltoso se non impossibile, per un normale utente motorizzato, evitare l’ostacolo in tempo utile (non si tratta qui di un pedone che cammina).
Occorre poi applicare tale concetto adeguandolo alla situazione specifica dei luoghi, nonché soggettiva della persona che assume di aver subito un danno dall’insidia.
In questo caso non vi è dubbio sulla sussistenza di un pericolo non facilmente evitabile, se non altro per la presenza pressoché totale sul manto stradale delle sconnessioni e per la conseguente difficoltà, di notte, di arrestare (o diminuire) la marcia in tempo utile.
Credibilmente, il testimone Amoroso, sentito dal giudice, ha confermato che l’area era buia e non illuminata e che era presente e aveva visto l’attore cadere, a causa delle buche presenti.
Si ritiene tuttavia di attribuire un concorso di colpa del 30% al motociclista per la ragione che nell’area urbana di Roma, proprio per le notorie ubique sconnessioni stradali, è necessaria, massimamente per le moto, una andatura molto moderata ed accorta.
La compatibilità del concorso di colpa del danneggiato con la negligente manutenzione della strada da parte del Comune è in questo caso ammissibile perché si ritiene che la condotta concreta di R. C. non sia stata fattore elidente il nesso causale esistente fra la condotta censurabile dell’Ente e l’evento dannoso, quanto piuttosto fattore incidente sul grado di colpa dell’ente territoriale, che ne risulta attenuato.
L’evento dannoso è accaduto in data 3.7.2010 quando l’attore aveva 26 anni.
E’ importante indicare la data del fatto in quanto dal marzo 2001 (l.5.3.2001 n.57) è in vigore il sistema del punto legale al quale il Giudice in virtù della legge 12.12.2002 n.273 e successive puo’ derogare in aumento, per le micropermanenti, solo nella misura di un terzo.
Più specificamente la legge (oggi decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 Codice delle assicurazioni private, art.139) prevede che il risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve entità, derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, è effettuato secondo i criteri e le misure seguenti: a titolo di danno biologico permanente, è liquidato per i postumi da lesioni pari o inferiori al nove per cento un importo crescente in misura più che proporzionale in relazione ad ogni punto percentuale di invalidità; tale importo è calcolato in base all’applicazione a ciascun punto percentuale di invalidità del relativo coefficiente secondo la correlazione esposta nel comma 6. L’importo così determinato si riduce con il crescere dell’età del soggetto in ragione dello zero virgola cinque per cento per ogni anno di età a partire dall’undicesimo anno di età. Il valore del primo punto è pari ad euro seicentosettantaquattro virgola settantotto; a titolo di danno biologico temporaneo, è liquidato un importo di euro trentanove virgola trentasette per ogni giorno di inabilità assoluta; in caso di inabilità temporanea inferiore al cento per cento, la liquidazione avviene in misura corrispondente alla percentuale di inabilità riconosciuta per ciascun giorno.
Come detto, la legge prevede che l’ammontare del danno biologico (temporaneo e permanente) liquidato ai fini può essere aumentato dal Giudice in misura non superiore ad un terzo, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato.
Ne consegue che per quanto riguarda il danno biologico permanente da 1 a 9 punti ed il danno biologico temporaneo vanno applicate le norme suindicate e le relative tabelle applicative (derivanti dai decreti ministeriali di periodico aggiornamento).
Per quanto invece concerne:
il danno biologico (temporaneo e permanente) relativo ad aree diverse da quella dei danni derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti (precisamente come in questo caso) ed
il danno biologico permanente derivante da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti per il quale i postumi delle lesioni sono superiori al nove per cento, il sistema seguito per la valutazione del danno biologico muove dal valore di punto che rappresenta il criterio più ampiamente diffuso nell’ambito del Tribunale di Roma.
Invero l’applicazione delle tabelle di punto ha il vantaggio di attenuare la possibilità di trattamenti diversi per situazioni analoghe (come pure quello di consentire alle parti di addivenire più agevolmente a soluzioni transattive extragiudiziali).
Senza che ciò escluda la doverosità da parte del giudice (correlativa alla legittima aspettativa della parte) di personalizzare, ove necessario, l’ammontare degli importi riconosciuti al fine di rendere effettivo e completo il ristoro.
Nelle esplicative delle tabelle romane è condivisibilmente previsto fra l’altro….Per la valutazione equitativa nel caso di effettiva prova (ivi compresa la presunzione nell’ambito del diritto civile) del danno secondo i parametri della sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 26792/2008 (il ristoro di tale danno, infatti, compete a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato potendo in questo caso essere oggetto di risarcimento qualsiasi danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, indipendentemente da una sua rilevanza costituzionale; b) quando sia la legge stessa a prevedere espressamente il ristoro del danno limitatamente si soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto; c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale e non predeterminati dovendo, volta a volta essere allegati dalla parte e valutati caso per caso dal giudice (cfr ad es. Cass. sez. III, 25 settembre 2009 n. 20684), si ritiene necessario prendere in considerazione, per il concreto esercizio del relativo potere, un criterio che utilizzi, al fine di individuazione della somma adeguata a quanto provato, un importo percentuale di quanto liquidato a titolo di danno biologico in misura ordinariamente non eccedente il 60%, tenuto conto che nelle tabelle del danno biologico elaborate dal Tribunale non era compresa alcuna quota relativa al cd danno non patrimoniale soggettivo.
Premesso che il fatto in sé costituisce reato di lesioni colpose, non v’ha dubbio che debba essere riconosciuto all’attore (a prescindere dall’esistenza o meno di querela) la voce di danno non patrimoniale relativa alla sofferenza ed al patimento che ne sono derivati (descrittivamente danno morale) con applicazione, per la quantificazione, dei criteri, scaglioni e range elaborati a tale proposito dal tribunale capitolino.
Esaminata e condivisa la relazione peritale d’ufficio, ben motivata ed immune da errori o vizi logico-tecnico-giuridici, ed in assenza di specifiche e valide contestazioni, va evidenziato che l’attore ha subito a seguito dell’evento i seguenti danni:
invalidità permanente 4 %
invalidità temporanea 100% di gg.30
invalidità temporanea 50% di gg.20
spese medico-sanitarie per la persona e danni alla moto
L’ammontare del risarcimento viene pertanto così determinata (comprensivo danno morale):
invalidità permanente: €. 6.000
invalidità temporanea: €. 500
spese medico-sanitarie documentate e riconosciute: €. 2.600
danni moto, valutati equitativamente: €.300
Le somme riconosciute sono la risultanza della rivalutazione alla data della decisione (secondo le tabelle aggiornate): ed invero solo attraverso il meccanismo della rivalutazione monetaria è possibile rendere effettivo il principio secondo cui il patrimonio del creditore danneggiato deve essere ricostituito per intero (quanto meno per equivalente); essendo evidente che, pur nell’ambito del vigente principio nominalistico, altro è un determinato importo di denaro disponibile oggi ed altro è il medesimo importo disponibile in un tempo passato).
Comprendono altresì il danno consistente nel mancato godimento da parte del danneggiato dell’equivalente monetario del bene perduto per tutto il tempo decorrente fra il fatto e la sua liquidazione. Ed invero devesi a tale fine fare applicazione delle presunzioni semplici in virtù delle quali non si può obliterare che ove il danneggiato fosse stato in possesso delle somme predette le avrebbe verosimilmente impiegate secondo i modi e le forme tipiche del piccolo risparmiatore in parte investendole nelle forme d’uso di tale categoria economica (ad esempio in azioni ed obbligazioni, in fondi, in titoli di Stato o di altro genere) ricavandone i relativi guadagni. Con tali comportamenti oltre a porre il denaro al riparo dalla svalutazione vi sarebbe stato un guadagno (che è invece mancato) che pertanto è giusto e doveroso risarcire, in via equitativa, con la attribuzione degli interessi legali.
Il calcolo di tali interessi viene effettuato in virtù della sentenza del 17.2.1995 n.1712 della Suprema Corte procedendo prima alla devalutazione alla data del fatto dannoso degli importi che erano stati rivalutati alla data della sentenza; e successivamente calcolando sugli importi rivalutati anno per anno i relativi interessi legali ai tassi stabiliti per legge anno per anno, senza alcuna capitalizzazione.
In definitiva all’attore spetta complessivamente la somma di €.13.000,00 che si riduce a €.9.100 per il concorso di colpa, oltre interessi legali fino al saldo.
-7- Le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla mancata ingiustificata partecipazione al procedimento di mediazione previste dal decr.lgsl.28/2010 – La sanzione del pagamento a favore dell’erario di una somma pari al contributo unificato.
Non avendo partecipato, ingiustificatamente, Roma Capitale al procedimento di mediazione al quale era stata convocata la stessa va condannata al versamento all’Erario di una somma corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio.
La cancelleria provvederà alla riscossione.
-8- Le conseguenze ulteriori per la inottemperanza alla disposizione del giudice ex art.5 co.II° – La responsabilità aggravata di cui all’art.96 III° comma cpc Presupposti e ragioni della sua applicabilità alla mediazione.
– A) L’art.8 comma quarto bis del decr.lgsl.28/10 non esaurisce gli strumenti sanzionatori posti a presidio dell’effettivo svolgimento della mediazione – B) Le condotte dei soggetti coinvolti nel procedimento di mediazione sono sussumibili nell’area di interesse dell’art.96 cpc – C) L’art.96 cpc in combinato disposto con l’art. 3 Cost. in funzione riequilibratrice del sistema sanzionatorio apprestato per l’effettivo svolgimento della mediazione
Occorre rispondere ad alcuni interrogativi attinenti
al dubbio che l’art.8 comma quarto bis del decr.lgsl.28/10 possa esaurire, delimitandoli in modo non estensibile, gli strumenti legali latu sensu sanzionatori posti a presidio dell’effettivo svolgimento della mediazione;
alla pertinenza o meno delle condotte dei soggetti coinvolti nel procedimento di mediazione a quelle sussumibili nell’area di interesse dell’art.96 cpc
alla sussistenza della colpa grave
Ed ancora, chiedersi se il sistema latu sensu sanzionatorio apprestato dalla legge a presidio dell’effettivo svolgimento della mediazione sia conforme all’art.3 della Costituzione.
Quanto al primo interrogativo va osservato:
contro il rischio della mancata ingiustificata partecipazione al procedimento di mediazione l’art.8 comma quarto bis del decr.lgsl.28/10 predispone specifici deterrenti e precisamente la possibilità dell’utilizzo dell’art.116 cpc da parte del giudice e la condanna al pagamento di una somma pari al contributo unificato dovuto per il giudizio.
Alla domanda se possa essere applicata anche la sanzione di cui all’art.96 cpc non espressamente menzionata dall’art.8 decr.lgsl.cit, si deve dare risposta univocamente affermativa.
Che si impone, non potendo valere a pena di grave vulnus al sistema processuale, il brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit
Invero, l’art. 96 cpc è norma aperta, cioé di generale applicazione e non può neppure concettuamente essere ipotizzata, pena una grave aporia, un’interpretazione che condizioni il suo perimetro applicativo all’esistenza di una espressa previsione per singoli casi.
Ciò trova conferma nello stesso decr.lgsl.28/10 che all’art.13, all’atto di prevedere una specifica disciplina delle spese di causa in materia di proposta del mediatore irragionevolmente non accettata, fa comunque salva l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile
Piuttosto quindi, è giocoforza affermare che sono gli strumenti previsti dall’art.8 del decr.lgsl.28/10 ad aggiungersi, in virtù di una specifica previsione di legge, alle norme di generale applicazione (qual’è l’art.96 cpc) per le quali non è necessario uno specifico richiamo.
Quanto al secondo interrogativo va osservato:La possibilità di applicare l’art.96 cpc, nel caso di ingiustificata partecipazione della parte convocata al procedimento di mediazione deriva dai seguenti e convergenti parametri logico-sistematici:
nel caso dell’art.5 II° decr.lgsl.28/2010 (diversamente dalla mediazione obbligatoria) il giudice ha effettuato una valutazione di mediabilità concreta e specifica (relativa all’an, al momento in cui disporla, ed alle circostanze oggettive e soggettive che hanno evidenziato l’utilità del tentativo di conciliazione): il disvalore del rifiuto di partecipare all’incontro è quindi, all’evidenza, ben più elevato rispetto al caso della mediazione obbligatoria;
l’applicazione della misura sanzionatoria (dell’art.96 III°) non è una conseguenza automatica della mancata partecipazione, ma di una valutazione specifica e complessiva della condotta del soggetto renitente con riferimento, fra l’altro ma non solo, all’assenza di giustificati motivi per non partecipare ed al grado di probabilità del raggiungimento di un accordo in caso di partecipazione (fattore quest’ultimo che, in questo caso il giudice aveva ben evidenziato nell’ordinanza di invio); cosicché tanto più alte ed evidenti si appalesano tali possibilità tanto più grave e meritevole di sanzione (art.96 cpc) si connota l’ingiustificato rifiuto;
il collegamento, già insito nell’essere la mediazione condizione di procedibilità, fra procedimento giudiziario (causa) e procedimento esterno (mediazione) è strettissimo e sincronico nella mediazione demandata. Nella quale si radicano più che altrove, molteplici punti di contatto e di interferenza con la causa (le indicazioni offerte alle parti ed al mediatore da parte del giudice nell’ordinanza di invio in mediazione demandata; la proposta del mediatore – che il giudice può propiziare nell’ordinanza- con i suoi possibili riflessi nella causa in caso di mancato accordo; la consulenza in mediazione con gli effetti della producibilità ed utilizzabilità nella causa in caso di mancato accordo, alla stregua dei requisiti, con i limiti e per gli effetti indicati dalla giurisprudenza );
la doverosità della partecipazione delle parti al procedimento di mediazione, se è predicata in modo diretto dalla legge per quanto riguarda la parte onerata dalla condizione di procedibilità, e solo indiretto, come si argomenta dal contenuto dell’art. 8 co.4 bis decr.lgsl.28/10, per quanto riguarda il convenuto, acquista ben più pregnante spessore e cogenza, quanto a quest’ultimo, a seguito della mediazione demandata riformata, nella quale l’ordine (e non come nel testo previgente un mero invito), del giudice si rivolge direttamente a tutte le parti, nessuna esclusa, rendendo manifesta ed esplicita la doverosità della partecipazione al procedimento di mediazione. In entrambi i casi la circostanza che siano state previste delle sanzioni per la mancata partecipazione attesta formalmente ciò che è ovvio sostanzialmente, vale a dire che l’attivazione della procedura di mediazione non afferisce solo ad un onere, in quanto a seguito dell’istanza nascono obblighi – sanzionati- di partecipazione a carico di tutte le parti in conflitto (istante e chiamato)
Emerge con evidenza da quanto precede che con l’applicazione dell’art.96 co. III° viene sanzionata la condotta del soggetto renitente prima di tutto processuale, cioé interna ed appartenente alla causa, dove tale espressione afferisce alla scelta del soggetto di non tenere nella giusta considerazione l’ordine impartitogli dal giudice, opponendogli un ingiustificato rifiuto.
Ne consegue che l’applicazione dell’art.96 co.III° cpc alla fattispecie della mancata partecipazione al procedimento di mediazione demandata non è solo questione ed interesse dell’istituto della mediazione, al cui presidio soccorrono (anche) norme interne alla legge che la disciplina (art. 8 decr.lgsl.28/2010), ma ben di più e prima, di disciplina del processo e di condotta processuale, che si qualifica scorretta e sanzionabile proprio nella misura in cui senza valida ragione viene disatteso un ordine legalmente dato dal giudice.
Art. 96 cpc, mediazione ed art. 3 della Costituzione
L’applicazione dell’art. 96 III° può avere inoltre, nel contesto di cui si discute, la funzione di un salutare e necessario riequilibrio del sistema sanzionatorio della mediazione, altrimenti palesemente sbilenco. E, in definitiva, consentire una interpretazione costituzionalmente orientata (dall’art.3 Cost), delle norme che la disciplinano.
Come è noto, l’attivazione del procedimento di mediazione è stata dal legislatore prevista quale condizione di procedibilità (art.5 decr.lgsl.28/2010) delle domande giudiziali nelle materie di cui all’art.1 bis decr.lgsl. cit. (mediazione obbligatoria), come pure, dal 2013 ed a prescindere dalla materia, nel caso di mediazione demandata dal giudice.
Qual’è la ragione d’essere di tale condizione di procedibilità e quale l’obiettivo del legislatore ?
La risposta al primo interrogativo è molto agevole.
Una riforma epocale destinata ad incidere profondamente ed in modo definitivo su una antica cultura giuridica formata ed avvezza pressoché esclusivamente all’aspra gestione della contesa giudiziale, con l’innesto di una massiccia dose di cultura conciliativa, non può produrre i suoi effetti, da un giorno all’altro, solo con un invito del legislatore.
Occorrono forti incentivi e deterrenti per le prevedibili naturali resistenze al Nuovo, anche quando sicuramente, come in questo caso, un Nuovo molto positivo, perché diretto a rivitalizzare la giurisdizione, riperimentrandola in ambiti dove è davvero necessaria. Senza la pretesa, che sarebbe errata e velleitaria, di sostituirla tout court, ma affiancandole un valore aggiunto che consiste nella possibilità per le parti, in moltissimi casi, nell’area dei diritti disponibili, di pervenire con l’aiuto di un mediatore professionale e imparziale, all’accordo. Prevenendo o ponendo fine ad una lite.
Una cultura quindi della pacificazione sociale, piuttosto della esasperazione del conflitto giudiziario immanente ed ubiquo.
Anche per l’individuazione dell’obiettivo, la risposta è agevole
Si può ipotizzare che il legislatore si volesse accontentare del semplice dato formale dell’ avvenuta presentazione dell’istanza di mediazione da parte del soggetto onerato ?
Si può ipotizzare che per il legislatore fosse del tutto indifferente che l’istante si presentasse effettivamente davanti al mediatore per esperire la mediazione ? E che potesse essere sufficiente, per le esigenze perseguite con questa riforma, un ruolo del mediatore puramente notarile, di attestazione dell’avvenuta presentazione della domanda ?
E’ del tutto evidente, al contrario, che il legislatore ha perseguito un obiettivo sostanziale, vale a dire che le parti in conflitto esperissero concretamente la mediazione, vale a dire si incontrassero personalmente e tentassero, discutendo con la presenza attiva e fattiva del mediatore, di accordarsi.
A questo serve la condizione di procedibilità. Per questo è stata prevista per la parte onerata una sanzione assai pesante, vale a dire l’improcedibilità della domanda con conseguente condanna alle spese, per il caso di non attivazione del procedimento di mediazione, obbligatoria e demandata.
Se così stanno le cose e così precisamente stanno, non v’è chi non veda come il raggiungimento di tale obiettivo si scontra con la irragionevole sproporzione, al ribasso, della sanzione prevista a carico del soggetto convocato renitente.
Quest’ultimo, per quanto ingiustificata sia la sua assenza, subisce l’applicazione (certa) di una sanzione pari al contributo unificato, all’evidenza di scarsa o nulla deterrenza (essendo una somma fissa, del tutto imbelle per soggetti possidenti, come enti, assicurazioni, banche e per stare al caso in esame ad un ente territoriale), e l’eventuale utilizzo da parte del giudice dell’art. 116 cpc le cui limitate potenzialità sono state supra ampiamente descritte e che, peraltro, nel caso in cui la soccombenza sia stata per altro verso già attinta, è del tutto fuori luogo ed inutile.
Quindi in moltissimi casi e nella sostanza, non vi è (nella legge 28) a carico del convocato che non voglia pregiudizialmente partecipare al procedimento di mediazione nessuna sanzione.
Tale sbilanciamento non è poca cosa, per l’ovvia considerazione che l’accordo non si fa con una parte sola, sicché in definitiva a serve l’esistenza ( nella legge 28) di un forte spinta a mediare – la sanzione di improcedibilità della domanda – a carico di uno solo dei contendenti.
Da quanto segue risulta chiaramente dimostrata la sostanziale equità costituzionale (ed invero non si vede per quale ragione logica, e con quale giustizia, l’importanza della partecipazione all’incontro di mediazione, predicata con limpida chiarezza dal legislatore, dovrebbe essere adeguatamente presidiata solo nei confronti di una sola delle parti in conflitto e non dell’altra) dell’utilizzo dell’art.96 III° cpc (anche) in funzione riequilibratrice delle posizioni delle parti rispetto ai mezzi legali applicabili per rendere effettiva la loro partecipazione all’esperimento di mediazione.
-8 bis- Il contenuto dell’art. 96 III° Il dolo o la colpa grave – L‘inottemperanza, ingiustificata, della parte all’ordine del giudice ex art. 5 comma II° decr.lgsl.28/10, di partecipare alla mediazione, costituisce grave inadempienza, dalla quale può discendere l’applicazione della sanzione di cui al terzo comma dell’art.96 cpc.
L’art. 96 dispone che:
I° se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza.
II° Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziaria, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.
E per quel che qui interessa:
III° In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata
La norma del terzo comma introdotta dalla l.18.6.2009 n.69 ed entrata in vigore dal 4.7.2009 ha cambiato completamente il quadro previgente con alcune importanti novità:
in primo luogo non è più necessario allegare e dimostrare l’esistenza di un danno che abbia tutti i connotati giuridici per essere ammesso a risarcimento essendo semplicemente previsto che il giudice condanna la parte soccombente al pagamento di un somma di denaro ;
non si tratta di un risarcimento ma di un indennizzo (se si pensa alla parte a cui favore viene concesso) e di una punizione (per aver appesantito inutilmente il corso della giustizia, se si ha riguardo allo Stato), di cui viene gravata la parte che ha agito con imprudenza, colpa o dolo;
l’ammontare della somma è lasciata alla discrezionalità del giudice che ha come unico parametro di legge l’equità per il che non si potrà che avere riguardo, da parte del giudice, a tutte le circostanze del caso per determinare in modo adeguato la somma attribuita alla parte vittoriosa;
a differenza delle ipotesi classiche (primo e secondo comma) il giudice provvede ad applicare quella che si presenta né più né meno che come una sanzione d’ufficio a carico della parte soccombente e non (necessariamente) su richiesta di parte;
infine, la possibilità di attivazione della norma non è necessariamente correlata alla sussistenza delle fattispecie del primo e secondo comma.
Come rivela in modo inequivoco la locuzione in ogni caso la condanna di cui al terzo comma può essere emessa sia nelle situazioni di cui ai primi due commi dell’art. 96 e sia in ogni altro caso. E quindi in tutti i casi in cui tale condanna, anche al di fuori dei primi due commi, appaia ragionevole.
Benché non sia richiesto espressamente dalla norma, si ritiene dalla giurisprudenza necessario anche il requisito della gravità della colpa.
A ben vedere nel caso che ci occupa, non di colpa (sia pure grave) trattasi, ma di dolo, in quanto la parte convocata si è volontariamente e consapevolmente sottratta all’ obbligo, derivante dall’ordine impartito dal giudice, di presentarsi e partecipare alla mediazione, di cui era perfettamente a conoscenza (come dimostra la pur errata e fuorviante giustificazione riferita)
La giurisprudenza richiede la sussistenza del dolo o della colpa grave poiché non è ragionevole che possa essere sanzionata la semplice soccombenza, che è un fatto fisiologico alla contesa giudiziale, ed è necessario che esista qualcosa di più rispetto ad essa, tale che la condotta soggettiva risulti caratterizzata, come in questo caso, da noncuranza dell’ordine del giudice, da deresponsabilizzazione della P.A., da pervicace volontà di protrarre la lite quale che ne siano le conseguenze.
La sussistenza di tali requisiti potrà essere riscontrata ricavandola da qualsiasi indicatore sintomatico.
Nel caso in esame, in presenza di chiare e comprovate circostanze (indicate dal giudice nell’ordinanza di invio in mediazione) che imponevano a tutta evidenza di dismettere una posizione processuale di ostinata pregiudiziale e pervicace resistenza, la condotta della P.A. convenuta integra certamente (laddove non si ritenesse -come si ritiene – sussistere il dolo) la colpa grave.
Deve affermarsi che il volontario ed ingiustificato rifiuto di aderire ad un ordine del giudice civile, legittimamente dato, va sempre considerato grave ed infatti l’ordinamento prevede rimedi, sanzioni e deterrenti di variegata natura e contenuto, a carico della parte (e talvolta anche del terzo) renitente.
Per il convergente e necessario fine che l’ordine non rimanga telum imbelle sine ictu e venga in tal modo, in maggiore o minore misura, intralciato e sabotato il buon governo della causa da parte del giudice.
Ed infatti se gli ordini del giudice, quando previsti e impartiti, potessero essere impunemente rimanere vani e inascoltati, il sistema processuale verrebbe gravemente depotenziato con forti e irreparabili ricadute sulla sua efficienza e, di conseguenza, gli stessi fondamenti sociali della civile convivenza verrebbero messi a repentaglio.
In realtà lo iussum del giudice trova sempre un adeguato presidio nell’ordinamento.
Di ciò può essere data ampia prova e di esempi se ne possono fare in gran numero.
Fermo restando che lo stesso sistema della esecuzione forzata non è altro che lo strumento per rendere coattivo e imperativo lo iussum esecutivo giudiziale, le sanzioni possono essere dirette e prevedere la condanna della parte (e talvolta anche di un terzo) al pagamento di somme di danaro così come previsto a carico di chi si sottrae volontariamente al provvedimento che dispone l’assunzione della testimonianza e di chi si rifiuta di adempiere all’obbligo di un fare (o non fare) infungibile (art.614 bis cpc)..
Come pure consistere in sanzioni penali come nel caso dell’art.388 del codice penale..
Ovvero, possono essere indirette, nei casi in cui le conseguenze dell’inottemperanza vanno ad attingere, negativamente, il merito, come nel caso della mancata risposta all’interrogatorio formale, dell’art.116 cpc, dell’art. 118 cpc, etc.
In altri casi ancora dall’inottemperanza possono scaturire misure coercitive (è il caso dell’ordine di esibizione ex art. 210 cpc al quale, ove inadempiuto, può seguire il sequestro di cui all’art. 670 cpc)
Ciò per dire e concludere che l’inottemperanza, ingiustificata, delle parti (di regola quella convocata, posto che per l’istante sussiste adeguata sanzione ed infatti all’ordine della demandata segue nella quasi totalità dei casi l’introduzione del procedimento di mediazione), all’ordine del giudice ex art. 5 comma II° decr.lgsl.28/10, non solo di introdurre, ma di partecipare effettivamente alla mediazione, costituisce sempre grave inadempienza, dalla quale ben può discendere, secondo le circostanze del caso, l’applicazione della sanzione di cui al terzo comma dell’art.96 cpc.
Nel caso in esame, infine, la circostanza del riconosciuto concorso di colpa non elide la gravità della colpa del Comune per la evidente ragione che nell’ordinanza del 15.12.2014 il giudice aveva già segnalato la possibilità che fosse ravvisato un certo grado di imprudenza del conducente, concorrente con la negligenza dell’ente territoriale per lo stato di totale abbandono in cui versava la superficie stradale in questione
Di talché proprio da tale precisazione l’ente territoriale avrebbe potuto trarre vantaggio (e risparmio) dalla negoziazione, partecipando utilmente al procedimento di mediazione.
9- La quantificazione della somma al cui pagamento la convenuta va condannata ai sensi dell’art.96 co.III° cpc
L’ammontare della somma deve essere rapportato :
Allo stato soggettivo del responsabile, perché il dolo e la cosciente volontarietà della condotta censurabile ex art. 96 co.III° è più grave della colpa. In questo caso vi è stata una volontaria condotta deresponsabilizzata del Comune di Roma, che disattendendo il motivato e ragionevole invito del giudice a trovare un conveniente accordo tenendo conto di quanto argomentato nell’ordinanza, ha preferito portare la causa alle estreme conseguenze, aggravando inutilmente il lavoro del giudice, piuttosto che ragionare e discutere responsabilmente in sede conciliativa, con sicuro risparmio anche per le casse dell’ente territoriale.
Alla qualifica ed alle caratteristiche del responsabile, persona fisica o giuridica che sia, ed alla sua maggiore o minore capacità anche in termini organizzativi, di preparazione professionale, culturale, tecnica, di assumere condotte consapevoli (si tratta di un parametro che riguarda la scusabilità, ove esistente, in misura maggiore o minore, della condotta censurata). In questo caso la condotta dell’Ente territoriale non è scusabile per le ragioni dette.
Alla rilevanza delle conseguenze della condotta censurata. Ed a quanto ciò abbia inciso sulla parte vittoriosa sia dal punto di vista oggettivo che da quello soggettivo per lo stress aggiuntivo connesso all’incertezza dell’esito della lite ed al protrarsi dell’attesa del conseguimento del bene della vita atteso. Una conciliazione, facilmente conseguibile, visti i presupposti, avrebbe evitato tali ultime conseguenze che possono ritenersi verosimilmente verificate a carico dell’attore.
Alla forza ed al potere economico del responsabile, che secondo le circostanze può risultare avere abusato con la sua azione o la sua resistenza, del giudizio, dei suoi tempi e del modo di gestirlo. All’evidenza per un ente di enorme dimensioni, con responsabilità individuali diffuse, qual’è Roma Capitale, la durata della causa e l’eventualità della condanna alle spese connessa ad una possibile soccombenza non costituisce una remora sufficiente ad evitare condotte processuali censurabili
Alla perseveranza della condotta censura. Laddove il soccombente non abbia manifestato alcuna resipiscenza perseverando con argomenti manifestamente errati. E l’evidente caso che ci occupa dove la giustificazione addotta dall’ente territoriale per non partecipare alla mediazione è stata puramente di stile ed erronea, quando ancora all’udienza di verifica si sarebbe potuta fare emergere una qualche disponibilità alla conciliazione propiziata dal giudice.
Alla necessità che in relazione alle caratteristiche del soggetto responsabile, ed in particolare alla sua capacità patrimoniale, la condanna ex art.96 co III° cpc costituisca un efficace deterrente ed una sanzione significativa ed avvertibile. Nei confronti di un’amministrazione pubblica tale provvedimento acquista maggiore efficacia, tale da essere in grado di sensibilizzare direttamente il funzionario responsabile e quello titolare del rapporto organico, se accompagnato dalla trasmissione degli atti all’Organo competente (Procura Generale della Corte dei Conti) per l’accertamento del danno erariale (in questo caso commisurabile quanto meno alla somma per la quale viene emessa condanna ex art. 96 co. III° cpc; ed al contributo unificato), incombente che, valutata ogni circostanza, devesi senz’altro adottare in questo caso.
Per la concreta determinazione della somma si ritiene di adottare, quale valido ed obiettivo parametro di riferimento, una somma di ammontare pressoché pari a quella liquidata a titolo di sorte.
Nel caso di specie, pertanto, si reputa giusto ed equo condannare l’ente convenuto al pagamento della somma di €.8.000,00=
-10- Il danno erariale – Trasmissione degli atti alla Procura Generale della Corte dei Conti
Come da ordinanza che segue.
-11- Le spese processuali.
Le spese (che vengono regolate secondo le previsioni – orientative per il giudice che tiene conto di ogni utile circostanza per adeguare nel modo migliore la liquidazione al caso concreto- della l.24.3.2012 n.27 e del D.M. Ministero Giustizia 10.3.2014 n.55) vengono liquidate come in dispositivo in favore dell’attore.
La sentenza è per legge esecutiva.
CONDANNA Roma Capitale in persona del Sindaco pro tempore al risarcimento dei danni che determina in favore di R. C. nella complessiva somma di € 9.100.000 oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo;
CONDANNA Roma Capitale in persona del Sindaco pro tempore al pagamento delle spese di causa che liquida in favore dell’attore in complessivi € 500,00 per compensi oltre IVA, CAP e spese generali;
CONDANNA Roma Capitale in persona del Sindaco pro tempore al pagamento ai sensi dell’art.96 co.III° in favore di R. C. della somma di € 8.000,00 ;
CONDANNA Roma Capitale in persona del Sindaco pro tempore al pagamento in favore dell’Erario di una somma corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio, mandando alla cancelleria per la riscossione;
DISPONE con separata ordinanza, l’invio degli atti e della sentenza alla Procura Generale della Corte dei Conti per la valutazione dei danni erariali;
SENTENZA esecutiva.Roma, lì 17.12.2015.
dott. cons.Massimo Moriconi
TRIBUNALE di ROMA SEZIONE XIII°
O R D I N A N Z A
dott. Massimo Moriconi,
letti gli atti e la sentenza emessa in data odierna,
preso atto della condotta volontariamente deresponsabilizzata dell’Ente territoriale nei confronti dell’ordine di cui all’ordinanza del 15.12.2014 del Giudice e della conseguente mancata ingiustificata partecipazione di Roma Capitale al procedimento di mediazione demandata con essa ordinanza disposto;
preso atto che in relazione alle circostanze esposte nella predetta ordinanza (ed in particolare all’essere stata ivi ventilata la esistenza di un concorso di colpa del danneggiato), vi erano elevate probabilità di un accordo che avrebbe comportato un minor esborso da parte dell’ente territoriale rispetto a quello che contiene la sentenza;
considerato che l’esistenza di ben chiare coordinate esposte dal giudice nella predetta ordinanza ponevano l’ente nella condizione di poter pervenire ad una conciliazione in totale sicurezza e senza il timore di addebiti per le scelte discrezionali ad essa afferenti;
ritenuta la possibile sussistenza di un danno erariale causato sia sotto il profilo del maggior esborso dovuto da Roma Capitale conseguente alla sentenza di condanna rispetto alla conciliazione; e sia in relazione alle somme da pagare in dipendenza della condanna ex art. 96 III° cpc ed al contributo unificato, direttamente ed esclusivamente dipendenti da tale censurata condotta deresponsabilizzata;
Roma lì 17.12.2015 Il Giudice
dott.cons.Massimo Moriconi